Un Francesco Repice inedito, dalle pagine di "Tuttosport" del 13 Maggio 2018. Oltre la figura del radiocronista che tutti ascoltiamo, si racconta nella sua vita privata. Un'intervista-incontro per la rubrica "L'Uomo della Domenica", a firma di Marco Bonetto. Le passioni, come quella per i cavalli e quella mai nascosta per la Roma. La famiglia e le origini. Il percorso precedente all'approdo in Rai e quell'antica conoscenza con chi oggi è il Presidente della Repubblica italiana. E tanto altro ancora, in un servizio da non perdere, per provare a conoscerlo meglio. (Marco D'Alessandro)
«Janas Sugar Zen. Quando lo cavalcavo, io però lo chiamavo Merlino. Perché era un mago, riusciva a far vincere anche me. Con lui ho vinto la gara più importante della mia vita, nel reining. Su YouTube ci sono le immagini della gara. Quattro anni fa. A Roma. Superammo le fasi regionali, ci qualificammo per le finali nazionali. Un gran cavallo, Merlino. Era tutta una corrispondenza di amorosi sensi, tra noi. Insieme formavamo un personaggio mitologico. Metà uomo e metà cavallo. Io ero la testa, il torso, e lui il resto del corpo, la parte posteriore del cavallo, con la coda. Mi sentivo un centauro, in sella a Merlino. Molto più alto di un uomo. E non per un fatto di statura. Una volta con Janas gareggiai anche in Piemonte. Ma la competizione andò per le lunghe, ci furono ritardi incredibili. Quando toccò a noi, erano le tre di notte. Andai da lui per prepararci. Mi guardò così. Con quel suo muso lì, che però per me era una faccia. Mi fece quell’espressione lì, tutto un programma. Una smorfia. Come per dirmi: ma che sei scemo a voler gareggiare a quest’ora?
Naturalmente Merlino mi fece vincere anche quella gara.
RALLENTI IL TEMPO
Quando si lavora sul campo, quando ci si allena, quando ci si prepara, quando cominci ad annodargli la coda, a farne una treccia per evitare che in gara la calpesti e si faccia male, insomma, quando il rito inizia, inizi pure a rallentare il tempo. Fai ogni cosa molto lentamente. Dilati il momento, mentre spazzoli il cavallo, gli fai i nodi alla criniera, gli fai indossare la sella, gli sistemi i parastinchi. Intanto gli parli, gli parli come a un amico. Entri in una dimensione tale con l’animale da riuscire a scappare via con lui. E vi potete capire solo voi due, in quel momento. Così, magicamente, si crea una sintonia pazzesca con il cavallo. Totale. Incredibile. Tantissime volte ho avuto la netta impressione che i miei cavalli mi comprendessero, mentre gli parlavo. Il cavallo comprende subito se sei nervoso, felice, agitato, sereno, sei hai dei pensieri o se invece sei leggero. Poi cominci a parlargli, a raccontare cosa ti è successo, cosa stai provando. E ti accorgi che inizia a muovere il muso o a nitrire con una logica umana. E’ questa la magia. Ero questo io, con Merlino.
Sono grato ai cavalli. Ti aiutano a stare meglio dentro alla vita. Quando hai un bel rapporto con un animale, diventi una persona migliore in tutto. Ma devi sforzarti. Anche tu devi capire il
cavallo. E un cavallo, se sta male, non te lo dice come te lo potrebbe dire un amico. Un cavallo devi osservarlo bene e ascoltarlo anche con altre orecchie. Devi fare un grande sforzo di comprensione, per entrare in contatto con lui. Una comunione. E’ sempre questa la magia.
Il reining è una disciplina dell’equitazione di origine americana. Una disciplina sportiva molto difficile, con figure tecniche particolari. Ti prende in modo clamoroso, se ti ci metti. Raggruppa un insieme di esibizioni. In una gara devi saper compiere con abilità un certo numero di manovre in successioni diverse. Cerchi a diverse velocità e di differenti ampiezze. Galoppo. Rotazioni
sul posto. Dietrofont rapido. Arresti immediati e così via. Quindi deve esserci totale sintonia con il cavallo.
Lui deve riuscire a leggerti nel pensiero e tu devi metterlo in condizione di poterlo fare. Io da bambino tifavo per gli indiani, ma il reining nasce dai cowboy, dalla cura del bestiame. Dovevano condurre infinite mandrie di bovini nelle praterie del West. Dovevano essere dei cavalieri bravissimi in qualunque condizione. E i loro cavalli dovevano essere altrettanto rapidi, intelligenti, pronti. Addestrati a rispondere perfettamente ai comandi delle redini. In America, in un secondo tempo, cominciarono a sorgere dei centri, delle scuole. Cominciarono a susseguirsi le esibizioni, le gare. Questa disciplina equestre nasce tutta da lì. Il reining lo pratichi con i quarter horse. Che sono appunto dei cavalli americani. Quelli che usavano i cowboy nell’Ottocento per guidare le mandrie. E ovviamente la monta è western.
Tu pensi una cosa, e il cavallo la fa: ecco la verità.
Ho cominciato a montare da ragazzino. Il reining l’ho scoperto tardi, negli Anni 90. Tutto merito di un film, Balla coi lupi. Mi appassionai. Fino a quel momento facevo soltanto delle passeggiate a cavallo con la monta inglese. Mi dissi: anch’io voglio un cavallo così. Cercai informazioni, entrai nel mondo del reining e non ne sono uscito più. Non se ne esce più. E’ come un precipizio, ti entra nel sangue.
In questo momento non ho più un cavallo da gara. Merlino è ancora vivo, ma non cavalchiamo più assieme. Sto cercando un nuovo puledro per farlo addestrare dal mio trainer, Claudio
Ciaravalle. E lui lo sa: i miei umori dipendono dai suoi giudizi e da cosa fa la Roma. L’equitazione ti cambia la testa. A me aiuta a liberarmela. La Roma mi intossica la vita, la Roma è diventata una sofferenza per me.Non riesco più a vederla o a sentirla. Se non devo essere io a fare la radiocronaca di una partita della Roma, non la vedo né la sento. La amo: soffro troppo. Sono diventato della Roma da piccolissimo, quando scelsi la mia prima macchinina per giocare con gli amichetti. Ce n’erano di tanti colori. Io presi quella gialla e rossa.
LO ZIO PARTIGIANO
Mio papà si chiamava Salvatore. Era in un imprenditore nel campo della moda. Aveva un calzaturificio in Calabria: Cesare Firrao. A Luzzi, in provincia di Cosenza. Vendevamo scarpe di qualità. Ce le ordinava anche Clinton, quando era presidente. Papà è morto nel 2013. Da anni aveva già venduto l’attività. Quando faceva l’imprenditore, girava il mondo. Aveva iniziato con i tessuti, i filati. Solo dopo passò alle scarpe e si mise in proprio. Mio nonno invece era capostazione a Tropea, in Calabria. Aveva 9 figli. Il primo fratello di mio padre, zio Rocco, fu un partigiano. Venne tradito da una donna e fucilato dai fascisti in Piemonte a Cuneo. Dalle Brigate nere. Il 26 novembre del 1944. C’è una lapide, dove successe.
Io sono nato a Cosenza il 4 marzo del 1963. Ma la mia vita è stata quella di un girovago: Sud, Nord, Centro, Cosenza, Roma e poi Lecco. E credetemi, non era facilissimo vivere a Lecco da calabrese cresciuto a Roma, anche se il ceto sociale della mia famiglia era particolare. Il ramo paterno era di Tropea. Quello materno, di Cosenza. La famiglia di mia madre era di ceppo nobiliare. Il matrimonio fu contrastato, difatti. Una nobile che voleva sposare il figlio di un capostazione: la famiglia di mia madre non era d’accordo. Ma vinse l’amore.
CON IL BRIGATISTA
Cominciammo a girare l’Italia, dietro al lavoro di mio padre. I miei erano arrabbiati perché giocavo a calcio dal mattino alla sera. Dopo le scuole a Roma e a Lecco, mi mandarono in punizione a Cosenza in un collegio dei preti durissimo. I professori veneravano il greco e il latino. Erano tutti sacerdoti. L’insegnante di latino era severissimo: ci alzava per le basette, se sbagliavamo qualcosa. Indossava i guanti, quando prendeva in mano un libro di Cicerone. Ma era anche molto bravo. Il forte cameratismo con i miei amici, questo lato del carattere che ho, è nato lì in quel collegio dei preti. Poi tornai a Roma. L’Università. Avevo già cominciato le collaborazioni, a scrivere sui giornali. La svolta fu inaspettata, come sempre. Attraverso la conoscenza di un senatore di Luzzi, del nostro paese, seppi che l’onorevole Mastella cercava un ragazzo per il giornale della Dc. Lo guardai con occhi sbarrati, quando me lo disse: quella proposta centrava ben poco con lamia vita di giovane marxista, ma in ballo c’era il contratto di praticante e per iniziare la carriera giornalistica fare il praticante è decisivo. Così accettai. Negli anni attraversai ogni tipo di difficoltà, lavorando alla Discussione o al Popolo. Le correnti della Dc si scambiavano alla guida del partito, modificavano le linee editoriali, cambiavano i direttori. Mi trovai anche ad affrontare la stagione pazzesca di Tangentopoli, all’inizio degli Anni 90. Ero al Popolo e il direttore politico era Mattarella. Il presidente della Repubblica, sì. Non ho mai conosciuto un uomo di così tanta rettitudine morale e spessore come Mattarella. Se ci stai vicino, respiri un’aura di rispetto e di cultura spaventosa. La sua applicazione con noi era rigorosissima. Dirlo ora è semplice. Mattarella arrivò anche a dimettersi da ministro, per coscienza e coerenza, contro la legge Mammì. Sergio Mattarella è il fratello di Piersanti, ucciso dalla mafia. Mi insegnò un rigore eccezionale, il presidente. Lo vedevo ogni giorno. Si discuteva di tutto. Fu una fortuna incontrarlo: da certe persone hai solo da imparare.
Poi, a metà Anni 90, scoprii che nella Rai stavano cercando una persona da mettere in cronaca al giornale-radio. Mi presentai, ottenni la sostituzione di una collega in maternità. Iniziò l’avventura:
1996. Feci bene due o tre cose importanti. Entrai in una redazione pazzesca, avevo colleghi di una bravura imbarazzante: e pure quello aiuta. Ebbi la fortuna e la bravura di fare anche un colpaccio. L’intervista al brigatista Germano Maccari, in diretta al GR1 delle 13, poco prima che entrasse a Rebibbia. Mi disse, in radio: lo abbiamo preso, lo abbiamo messo in una cesta. Aldo Moro.
Nel ’97 arrivò l’assunzione. Più avanti passai dalla cronaca allo sport: era quanto desideravo. Quando a 14, 15 anni dicevo che volevo fare il radiocronista sportivo, mi guardavano strano. Mi prendevano in giro i parenti. Una volta li sfidai: e mi misi a fare la radiocronaca di una partita che stavano dando alla tv. Abbassai il volume e cominciai a parlare io. Pochi anni dopo iniziai a fare le radiocronache delle partite del Cosenza e del Rende. Le partite del Rende le raccontavo da una casa privata, da un balcone che si affacciava sul campo. Il collegamento avveniva per telefono.
Ho conosciuto bene Sandro
Ciotti: che è stato un dio
per tutti noi e un dio lo è ancora.
Nel 2000 cominciai a
seguire anche la Nazionale,
oltre alle squadre di club.
Agli Europei. Dal 2010 sono
la voce principale del calcio in radio: serie A e Coppe
internazionali. Sono arrivato
a 4 Mondiali e ad altrettanti
Europei, ormai. Nel
2013 morì mio padre, all’improvviso.
Ero in Brasile, alla
Confederations Cup, dietro
alla Nazionale. Era giugno.
A febbraio avevo già perso
mia mamma. Tornai subito
in Italia. Un anno dopo,
esattamente un anno dopo,
di nuovo in Brasile, mi sarei
ritrovato a raccontare il mio
primo Mondiale da voce ufficiale
della Nazionale. Ricordo
la partita contro l’Inghilterra.
Feci la radiocronaca in
pigiama, tanto faceva caldo,
tanta umidità c’era. Ero perennemente
bagnato, avevo
finito le magliette e i pantaloncini
Tu pensa: in pigiama
ai Mondiali. Com’è la vita.
Tanti anni fa mi accadde
un fatto. Stavo per parlare in
diretta al GR2 delle 12 e 30.
Mi incontrò per caso Ciotti,
fuori dagli studi, sulla soglia.
Io avevo un foglio in mano:
tutto quello che avrei dovuto
dire in diretta. Mi ero preparato.
E Ciotti, che per l’appunto
era un dio per noi, mi
squadrò. Mi chiese cosa fosse
quel foglio. Glielo spiegai
e lui mi fece: se un giorno ti
faranno fare la radiocronaca
di una partita, cosa farai?
Te la scriverai prima? Rimasi
di... emme. Accartocciai
il foglio e lo buttai nel cestino.
E parlai solo a braccio, al
GR. Fu una grande lezione,
quella che mi aveva impartito
Ciotti. E anche una grande
sfida, per me.
CIOTTI, CASSINA E ICARDI
Non voglio apparire come
uno sborone, ma non puoi
avere paura se vuoi fare il radiocronista.
Se hai paura degli
imprevisti, nel mio mestiere
sei un morto che cammina.
L’importante è essere
preparati, studiare. E saper
mantenere la massima concentrazione
durante la diretta.
Poi, per carità, nel lavoro
in tanti anni può anche capitarti
di dire una cagata mostruosa.
Ma io non ho paure.
E l’imprevisto mi esalta.
Anche se poi magari batti il
naso. Come quella volta alle
Olimpiadi di Pechino. Seguivo
Cassina, il ginnasta. Mi ero
anche studiato bene il suo
celebre “movimento”. Fece il
suo esercizio nella finale alla
sbarra e io lo esaltai, in diretta.
Ma il giudici gli affibbiarono
solo un quarto posto. Così
in radio me la presi con loro.
Ma più tardi intervistai Cassina.
E lui mi disse: no, ho sbagliato
io nella capriola, non è
colpa loro. Rimasi di emme
anche quella volta. Però se fai
il radiocronista, tu devi parlare.
Non devi mai smettere
di parlare. Una volta che hai
il microfono, o parli o muori.
Dice tutto la lezione di Rino
Icardi. Il suo insegnamento.
Stare davanti a un muro
bianco e allenarsi a fare una
radiocronaca, inventandola
dal nulla. Lo faceva anche
con me. Mi metteva al muro
e mi diceva: ora fammi la radiocronaca.
E lì, con il naso
appoggiato alla parete, non
ci sono bluff o raccomandazioni
che tengano. O ce l’hai
dentro, o non ce l’hai. O lo sai
fare oppure no.
IL VOLTO DI TOTTI
In Calabria il luogo dell’anima
per me resta Tropea, la
terra e il mare del mio ramo
paterno. Un luogo fantastico,
incantato. La pesca è l’altra
mia via di fuga, come l’equitazione.
Tropea è anche
il posto dove tornerò, quando
sarò anziano. Il mare è la
cosa più importante per me,
come elemento. E’ come la
montagna per uno scalatore.
Anche papà adorava il mare
e la pesca. Io pratico tutti i tipi
di pesca, dalla barca. Tropea
mi pulisce la testa, come i cavalli.
Dallo stress, dal lavoro e
dalle ansie per la Roma. Totti
è il volto della mia passione.
Non esiste un altro campione
che come lui si sia immedesimato
con la città, con
i tifosi, con la squadra. E qui
non parlo solo delle qualità
tecniche, magnifiche. Non
esiste un fuoriclasse che si
sia compenetrato nel tessuto
sociale di una città come
lui. In Totti c’è ogni romanista
che gioca a calcio.
Ecco chi c’è dietro alla
voce che sentite per radio.
Ma non sapete ancora la
cosa più importante di me.
La mia splendida moglie Federica:
ovviamente laziale,
perché sennò sarebbe stato
tutto troppo facile. Nel 2019
festeggeremo i 20 anni di
matrimonio. E le nostre figlie.
Maria Sole, che ha quasi
9 anni, e Beatrice, che deve
farne 6. La mia vita senza loro
tre non avrebbe alcun senso.
Ci metto anche i figli di
mia sorella, due gemelli di
14 anni, Francesco e Simone.
Abitiamo tutti nello stesso
palazzo.
Non riesco a immaginare
la mia vita senza loro. Sono
la ragione della mia esistenza.
Aver visto mio padre e
mia madre che tenevano in
braccio le mie figlie è stata la
cosa più esaltante, inebriante,
emozionante della mia
vita. La storia continua, pensavo
nel cuore».
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