L'ItalConte, tra poco più di ventiquattro ore, scenderà in campo contro l'Olanda per il suo primo test. Un amichevole importante, contro una Nazionale che negli ultimi otto anni ha ottenuto risultati migliori dei nostri. La macchina orange pare non smettere mai di sfornare talenti: pochi, anzi pochissimi i buchi nell'acqua dal 1974 in avanti (forse solo negli anni '80 un po' di sofferenza), una scuola che meriterebbe molto di più che un misero europeo vinto.
L'Olanda sarebbe
quell'esempio da provare a ricalcare, se non fosse che nella stanza
dei bottoni del calcio si pensa più alla poltrona che non al
progresso del nostro sport Nazionale. Niente squadre “B”, volti
che restano sempre gli stessi e sempre dai capelli bianchi e pratiche
burocratiche infinite per degli stadi nuovi di zecca. La Nazionale
Italiana di oggi è lo specchio di un calcio rattoppato e
invecchiato, e la scelta di Conte (non me ne vogliano i tifosi
juventini arrabbiati con lui) era quasi obbligata: Antonio, leccese
doc, è quello di cui questa rappresentativa oggi ha bisogno. Un
tecnico sagace che, nei tre anni juventini, ha saputo invertire una
tendenza al ribasso sempre più pericolosa, potendo contare solo
nell'ultima stagione su affermati top players in attacco come Tevez.
Ha preso una squadra diventata la barzelletta d'Italia con
l'obiettivo di farla diventare, di nuovo, come la più antipatica e
odiata dello Stivale, isole comprese. E c'è riuscito in pieno,
scalando montagne solo apparentemente semplici e portando la
formazione bianconera a raggiungere traguardi con punteggi
addirittura al di sopra, molto al di sopra, delle loro stesse
possibilità: i 102 punti dell'anno scorso sono l'esempio più
lampante di questa epopea contiana che non poteva mai essere
migliorata, manchevole però di un affermazione a livello europeo,
nemmeno sfiorata nemmeno nell'Europa League che prevedeva la finale
casalinga.
Insomma: tra Conte e
Prandelli, come curriculum, di base c'è già un abisso (quest'ultimo
si presentava all'azzurro forte solo di qualche bella partita con
Parma e Fiorentina). Anche caratterialmente sono due persone
completamente diverse: il mestiere di Prandelli è quello di “uomo
immagine”, uno che negli anni ha teso spesso ad apparire più che
ad essere, salvo poi far trapelare, con le sue scelte, lati
caratteriali tipici di ben altra persona rispetto a quella “casa e
chiesa” che tendeva a far trapelare. Uno che si è sempre nascosto
dietro ad un immagine di presunta, molto presunta, religiosità. Ne è
derivato un quadriennio in cui i pretismi, le prediche, le belle
parole (spesso smentite dai fatti) e i codici (pat)etici hanno
prevalso di gran lunga sui risultati, tranne per quel brevissimo
periodo dell'Europeo. Conte, al contrario, è un cattivo. Un duro.
Uno che in conferenza non le manda a dire e che, negli anni, è
riuscito nell'impresa di essere più antipatico di Mourihno, salvo
perdersi in qualche scivolone europeo dove si è pericolosamente
specchiato in Mazzarri. La nostra speranza è che in azzurro prevalga
il Conte del campionato. Uno che, parafrasando Gianfranco Funari, te
lo dice in faccia se sei stronzo, senza illuderti e senza nascondersi
dietro ai suddetti codici (pat)etici. Un pregio che nasconde qualche
difetto, però, quando va fuori di testa. Ed è lì che rischia di
farsi nemici illustri: è successo con la Juventus, con la sua fuga
oggettivamente sbagliata nei tempi, oppure in storiche diatribe con
Capello a marzo o ai tempi dell'Arezzo; è successo a Bari anche, che
il lato negativo della sua grinta lo strappasse dal cuore dei tifosi
con un'altra fuga oggettivamente snervante, sempre per motivi di
mercato. E' una persona che, nei momenti di rabbia, è capace di
mettere pericolosamente in discussione un ottimo lavoro con parole
gettate al microfono senza pensarle prima, oppure con gesti
improvvisi e sconvolgenti come le fughe da Torino e da Bari. E'
quindi necessario che il sistema Italia funzioni intorno a lui (ma
funzionerà?) in maniera accettabile, perché l'esperienza possa
proseguire anche oltre l'Europeo, senza particolari scossoni.
Questo è Conte. L'uomo e
il tecnico sono una cosa sola: un duro. Questo è quello di cui la
Nazionale ha bisogno, non di improbabili e ambigui preti di campagna.
Si può provare simpatia o antipatia per il tecnico pugliese e per le
sue conferenze stampe quasi mai banali e fucina di tormentoni, ma
guai a mettere in discussione le sue immense qualità tecniche. Ma
guai (e in questo caso mi rivolgo a qualche media servo presente in
Italia) a paragonarlo a mostri sacri come Mourihno e Lippi, però:
rispetto a loro, Conte è ancora uno studente in erba. Sicuramente il
più bravo, ma l'università del calcio internazionale finora lo ha
trovato costantemente impreparato, al di là delle mancanze della
rosa bianconera, non proprio ampia. Anche nel rapporto di Conte con
il calcio fuori dai nostri confini, serve un'inversione di tendenza.
Come quella che serve alla Nazionale, come quella che serviva alla
Juventus nel 2011 e al Bari nel 2008. Inversione che Conte seppe dare
alla grandissima. Si parte proprio da qui, da Bari. Per tornare
grandi con il restauratore Conte, al terzo esame di calcio
internazionale. Il più duro. E un duro come lui, vedrete, lo
supererà. Che il San Nicola, dove la carriera di Conte ebbe la sua
prima determinante spinta, sia di buon auspicio. Auguri a Conte, alla
Nazionale e a noi, per ritrovare quel pizzico d'identità e unità
nazionale che una volta esisteva in toto, poi solo per gli azzurri e,
da un po', neanche per quello.
Mario Aiello
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