Roberto Pelucchi
Gridò tre volte: «Campioni del mondo». E poi si scusò
Una mattina di quasi trent'anni fa ci trovavamo a New York dove, in serata, la nazionale italiana di calcio avrebbe giocato una partita. Avevamo pensato, con alcuni colleghi, di fare in mattinata un giro in battello intorno a Manhattan, ma al molo d'imbarco si incontrarono soltanto chi scrive e Nando Martellini. A un tratto si profilò la statua della Libertà. «Vedi - disse Nando -, tutto il mondo vive di strumenti e di simboli. Noi due, per esempio: io reggo un microfono e tu una macchina da scrivere. Il problema è questo: fino a che punto sappiamo farne un uso corretto e persuasivo? Credo che non avremo mai il polso completo del pubblico che cerchiamo di servire e d'informare. Ci sarà sempre chi ti apprezza e chi ti critica. È un gioco di equilibri e di squilibri che dobbiamo accettare. E che però, almeno a me, continua a procurare una cert'ansia e nuovi scrupoli». Quell'uomo, che ora ci ha lasciato, era per noi Nandone: una torre di elegante struttura che poggiava sul 46 dei piedi e che, nonostante fosse di ceppo romano, ben poco, forse quasi nulla, mutuava di talune allegre burbanze capitoline. Del maestro Nicolò Carosio non aveva la voce, unica e irripetibile, né il simpatico caratteraccio. E di quello che sarebbe stato il suo successore, Bruno Pizzul, non possedeva le accelerazioni emotive. Nandone, colto e poliglotta, rappresentava, per educazione e istinto, il raro valore della «mezza attendibile misura». Sarebbe potuto essere radiocronista e poi un telecronista inglese di vecchia scuola, nemico delle risse dialettiche e delle caciare che oggi prosperano sulle diverse trincee dell'agonismo. L'enfasi non entrava nelle categorie dei suoi modi di esporre, di raccontare, di commentare.
La volta in cui, alla conclusione della finale mondiale di Madrid vinta dall'Italia contro la Germania, esclamò «campioni del mondo, campioni del mondo, campioni del mondo!» cedette a un impulso assolutamente insolito. E dopo, quasi se ne volesse scusare, spiegò un poco imbarazzato che si era tenuto in gola quel grido gioioso da dodici anni, cioè dai giorni di un mondiale messicano perso sull' ultimo rettilineo. In tanti decenni di radiotelecronache, tra olimpiadi, giri ciclistici, calcio e quant'altro anche di non sportivo pure lui ha sbagliato. Accadde, per fare un caso, quando trasformò Altobelli in Jacobelli. E lì si rifugiò in una dignità professionale ch'era tutta sua. Dichiarò che sperava soltanto «di essere perdonato». Ma di errori ne ha commessi pochi, perché sapeva gestire un' attenzione controllata e preparata ai protagonisti e agli sviluppi dell' avvenimento. I suoi toni erano più morbidi che bronzei.
Gli apparteneva lo stile di un nobile della comunicazione i cui lati sonori riusciva ad amministrare non per drogare le platee ma semplicemente per accompagnarle e per aggiornarle nella lettura del rotolante copione di un evento.
Un modello di moderazione televisiva illuminata, così lontana dai ricorrenti frastuoni d'attualità.
Carlo Grandini
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