Roberto Pelucchi
Perché ha scelto di fare il giornalista?
E’ stato il sogno della mia infanzia. Mia madre mi raccontava che da bambino salivo su una sedia e parlavo dentro un barattolo vuoto. Di notte ascoltavo la radio, c’erano le prime radiocronache di sport, parlo degli anni 40, e c’erano, mi ricordo, due ciclisti che correvano al Vigorelli: uno era Italo Astolfi e l’altro Bergomi, e chi ha la mia età può senz’altro ricordarli. Io tifavo per questo Italo Astolfi perché si chiamava come me. E’ stato durissimo arrivare a fare questo mestiere perché allora era molto più selettivo di oggi. Ho iniziato prestissimo in provincia facendo un po’ lo studente, non brillante devo dire, e un po’ frequentando le redazioni dei giornali locali, naturalmente. Allora vivevo a Perugia, c’ho vissuto per vent’anni, dal ’46 al ’65 e poi ho dovuto fare altre cose: mi sono sposato giovane, ho fatto il parastatale ed ho portato avanti il mestiere di giornalista locale, periferico. Alla fine ce l’ho fatta perché collaboravo alla RAI. Insomma, sono riuscito a farmi assumere e poi mi sono trasferito a Roma per caso. Era il periodo dell’alluvione di Firenze e della Toscana in genere e mi chiamarono per dare una mano in redazione. Probabilmente i servizi che feci furono graditi e mi invitarono a trasferirmi a Roma, cosa che io feci con grande riluttanza perché temevo la grande città, temevo la concorrenza dei colleghi, cose che in realtà si dimostrarono preoccupazioni eccessive.
Oggi l’informazione è più veloce, capillare, diretta, ma vuota, spesso superficiale. Lei cosa ne pensa?
Questi sono i limiti della tecnologia, nel senso che sia a livello televisivo sia a livello radiofonico e di carta stampata, eccetera, la tecnologia fa sì che le immagini e quelle poche notizie poco controllabili arrivino ai giornali di tutto il mondo in tempo reale.
E questo cosa determina?
Determina, innanzitutto, un impoverimento del mestiere dell’inviato, perché è evidente che di fronte alla facilità di accedere a fonti giornalistiche di agenzie provenienti dalla CNN, oppure da questi grandi network che rivendicano le immagini di tutto il mondo, l’uso dell’inviato, che una volta arrivava sul posto conoscendo il posto, e quindi non veniva mai colto di sorpresa, ed era in grado di fare una cronaca accompagnata da analisi e spiegare il come e il perché certi eventi stessero accadendo. Tutto questo purtroppo è venuto meno, e quindi oggi c’è un giornalismo che punta in misura eccessiva sul sensazionalismo, sulla spettacolizzazione, ed aggiungerei il pettegolezzo, e questo anche a livello di giornali importanti. Rivelo quindi un impoverimento del giornalismo d’inchiesta, del giornalismo di analisi, e in assoluto del mestiere dell’inviato che viene usato sempre con il contagocce per ragioni prettamente economiche. Ci deve essere l’Iraq o una cosa enorme perché l’inviato sia autorizzato a partire, altrimenti ci si affida a dispacci d’agenzia. Mi raccontava un mio collega che la più grande agenzia americana è in grado per cento dollari al giorno di inviarti dispacci da tutto il mondo. Ma questa è un’informazione per tutti, non ha la specificità di un’analisi, di contenuti rapportati anche a quel tipo di giornale, a quel tipo di target di pubblico, e quindi andiamo male, devo dire che andiamo male. Lo sviluppo tecnologico, al limite, se da un lato ha facilitato la tempestività delle scelte, delle notizie, dall’altro ha impoverito i contenuti della professione.
Nelle attuali trasmissioni televisive di approfondimento si parla oltre tre ore per non dire nulla. Poi arriva lei, pochi giorni fa al TG3, in occasione di uno speciale sulla morte di Augusto Pinochet e in soli tre minuti riesce a raccontarci la storia del Cile dall’assalto al Palazzo della Moneda fino ad oggi? C’è qualcosa che non torna. Ce lo spieghi?
Io la ringrazio, perché effettivamente in quella trasmissione sono riuscito a raccontare questa storia, e devo anche dire che avevo un vantaggio ossia quello di conoscere a fondo questa storia e che ho vissuto più a lungo. Ho seguito il Cile prima del ’73, addirittura l’ho seguito dopo questo precario successo di Unità Popolare, e poi via, via, fino all’indebolimento progressivo, fino alla maturazione del colpo di stato. Poi questi lunghissimi, interminabili anni di frustrazione, di viaggi di andata e ritorno. Non succedeva niente, o meglio si registrava solo la protesta delle borgate, dei giovani e nient’altro. Tutto rimaneva lì e non produceva cambiamenti né indebolimenti del regime. Lei ha ragione, questo modo di trasformare la politica o il giornalismo in spettacolo ha fatto sì che ci si dilunghi in noiose chiacchiere, soprattutto quando si parla di politica interna, sia per gli aspetti puramente politici sia per quelli economici. Trovo vergognoso che un servizio pubblico, RAI 3 in qualche misura si salva, proponga un palinsesto di una TV generalista dove gli argomenti che possono interessare una persona di media cultura, ma anche un operaio, ma anche una persona bisognosa di informarsi, di documentarsi vanno a finire nel cuore della notte. In più sono abbastanza critico sul bla, bla, talvolta troppo bla, bla di trasmissioni tipo “Porta a Porta”, dove però vanno tutti perché sanno che quello è il teatro della politica, ma questo discorso ci porterebbe lontano.
C’è stato nella sua vita professionale un giornalista che ha particolarmente ammirato?
Mah, mi viene da pensare ad Andrea Barbato, prima come giornalista, poi come direttore. Un uomo colto, brillante dal punto di vista professionale, tollerante, un liberal-democratico che ha sofferto poi nella stagione della punizione alla quale era stato ridotto e che è morto addolorato perché privato di una trasmissione che si chiamava “Cartoline”, ed erano forse i momenti peggiori della politica italiana che abbiamo vissuto negli ultimi trent’anni. Era pesante il gioco partitico e lui fu schiacciato. Questa esperienza che avevamo fatto al TG2 era nata con belle speranze e, invece, dopo tre anni Barbato cominciò ad essere destabilizzato e nell’80 fu normalizzata la sua cacciata. Ricordo poi un grande cronista del quale, tra l’altro, è uscito proprio in questi giorni un libro postumo, perché non c’è più da sette anni, il libro s’intitola “Il pistarolo” che suggerisco a chi voglia ripassare la storia degli ultimi trent’anni sulle trame rosse e nere e sui servizi segreti. Lui si chiamava Marco Nozza, lavorava al “Giorno” ed era un uomo bravissimo, infaticabile e scrupoloso. Quindi ricordo questi due uomini: uno un grande direttore e giornalista e l’altro un grande cronista.
L’11 settembre 1973, una data drammatica per la democrazia cilena. Cosa ricorda di quei giorni ?
Ricordo intanto la lunga attesa snervante a Buenos Aires perché non si poteva entrare, avevano chiuso lo spazio aereo. Poi ricordo che gli americani avevano noleggiato un aereo charter ed ottennero che si aprisse uno spazio aereo. Io mi ero prenotato con un mio collega, lavoravo alla radio allora, ed avevamo dato cento dollari di anticipo ed avemmo la fortuna di arrivare pochi giorni dopo. Al nostro arrivo trovammo una democrazia schiacciata, c’era un potere assoluto, ostentato, talmente ostentato che non si faceva niente per nasconderlo, la repressione era pubblica. Per le strade le donne venivano inseguite e violentate dentro i cellulari dei carabineros. Poi lo stadio nazionale nel quale avventurosamente potemmo entrare. C’erano circa settemila poveri cristi malvestiti, all’addiaccio ed erano giovanotti, sindacalisti, operai, tutti finiti nelle retate quotidiane. Aspettavano di essere interrogati e qualche volta torturati o fucilati negli spogliatoi. Più paurosa ancora, devo dire, era la situazione che si vedeva all’esterno dello stadio, dove c’erano delle code interminabili di donne, soprattutto …sono sempre le donne in prima fila in America Latina. Donne giovani e non che erano lì invano, in attesa di avere notizie sui loro congiunti. Il ricordo di quei giorni era quello di un paese piegato, diviso profondamente e questa divisione se la porteranno dietro per venti anni.
Oggi l’America Latina è abbastanza matura per scongiurare in futuro il ripetersi di fatti analoghi?
Si può rispondere in modo affermativo. Intanto è cambiato il contesto storico e quindi non c’è più questo alibi, diciamo che tale era poi nella maggioranza dei casi, di schiacciare il comunismo. Si trattava spesso di interrompere dei processi economico-sociali che avrebbero portato a profondi mutamenti nei paesi latino americani. Anche se c’era una componente politica, per carità nessuno lo nega, però era dominante la situazione economica fin d’allora. Oggi, è venuto meno, diciamo lo scontro est-ovest, nel quale l’America Latina ne faceva le spese. Assistiamo ad un tentativo di egemonia per gli Stati Uniti soprattutto sul piano economico e commerciale che è duramente contrastato da tutti i paesi latino americani. In modo particolare quest’anno che sta per chiudersi è stato l’anno di grandi rivoluzioni politiche, tra virgolette, nel senso che si sono consolidati dei governi riformisti, progressisti, parlo del Brasile, Argentina, Uruguay, Equador e la Bolivia.
E’ veramente morta la figura del dittatore Augusto Pinochet in Cile o pensa che attraverso la destra possa in qualche modo diventare un’icona ingombrante, difficile da rimuovere, da dimenticare?
Una cosa va detta: Pinochet era già morto politicamente nel 2004 quando si scoprì che era un ladro. Questa cosa colpì molto i suoi sostenitori anche a livello delle gerarchie militari perché in una banca degli Stati Uniti si scoprì che c’erano depositi per milioni di dollari provenienti dalle tangenti che lui percepiva comprando armi. Pinochet era incriminato per arricchimenti illeciti, evasione fiscale, frode e quindi era indifendibile. Anche la destra aveva rinunciato all’icona di Pinochet da un paio d’anni, al punto che nelle ultime elezioni politiche, vinte dalla signora Bachelet, il loro candidato non ha mai rivendicato un passato pinochettista ed aveva capito che doveva sganciarlo, quindi Pinochet è passato definitivamente alla storia.
Oltre il giornalismo, quali altre passioni coltiva in privato?
Mi piace leggere, superare i problemi che qualche volta me lo impediscono, e mi piace molto il cinema.
Fernando Felli
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